GIANNI CASAGRANDE

Uno dei pochi elementi che si possono offrire con certezza sulla vita di Gianni Casagrande è la sua data di nascita avvenuta a Nuoro il 28 giugno 1963.

Lo scrivo perché nel corso della sua vita è stato capace di evocare, attraverso analisi ed esperienze trasversali, una personalità complessa e articolata.
In effetti, la sua formazione è stata pressoché motivata dalla curiosità, portando alla luce la sua volontà più grande: trasformare in pittura la parola (sebbene questo aspetto appaia scontato in quanto radicato nell’homo da millenni se osserviamo le pitture rupestri o gli ideogrammi della scrittura cinese).

La scuola non sempre incentiva o rappresenta la missione che ognuno sente in cuor proprio, infatti Casagrande abbandona gli studi di agraria a 17 anni, nel mese di aprile “è stata forse la prima di una serie di scelte istintive che si sono rivelate determinanti per la mia formazione personale, dalla quale non distinguerei il mio formarmi come artista”, scrive nel suo testo autobiografico.

Trova rifugio in biblioteca, come se quattro, cinque o sei mura, fossero in grado di racchiudere la miscela di connessioni, intrugli e confusioni che un ragazzo può avere alla sua età. Il sapere, però, è in parte preservato lì e Casagrande ha semplicemente optato per la via più vicina, giusta, diretta per sfruttare al meglio il suo anno sabbatico alla ricerca della propria verità.

Tra una lettura di narrativa tedesca e americana e l’altra inizia a lavorare in un’impresa edile contribuendo al fabbisogno economico della famiglia.
Il suo percorso lavorativo prosegue in un negozio di abbigliamento, pur mantenendosi ancorato, ossessionato, dalla scrittura e dalla pittura; amori che son più volte intrecciati un po’ per volontà e un po’ per desiderio di Madre Natura.
È solo poco tempo dopo che Gianni emerge come lo conosciamo: ormai cresciuto, è riuscito a bilanciare il lato estroverso con quello introverso; pronto a interfacciarsi con una realtà a cui sente di appartenere.

E prosegue senza sosta, giungendo sino a qualche giorno fa, quando la curatrice Chiara Manca seleziona per l’Unfair di Milano quindici suoi lavori su carta e cartone accompagnati da didascalie da lui scritte che vanno da sacre famiglie ripensate a ragazze con capelli rossi, armature, alberi immaginari, dialoghi di chat e altre opere inedite.

La curatrice ha accomunato gli artisti Roberto Chessa, Marco Useli, Ruggero Baragliu e lo stesso Gianni Casagrande per l’uso che fanno di materiali semplici, basici, come la carta.
Se il lavoro dei primi tre spazia elegantemente tra linee geometriche rigorose e altre più curve e fluide, Casagrande compone un incastro indissolubile tra il significato delle parole e pittura che suscita nell’osservatore un’energia romantica. Verrebbe voglia di leggere le didascalie e ricercare tali parole tra l’acrilico più scuro a quello più tenue, quasi contenesse risposte introvabili a problemi che, talvolta, non ci appartengono nemmeno. Da qui la necessità di un’intervista che potesse assorbire lo scorrere di parole libere e compatte, liquide, dense come l’olio di ottima qualità.

Sembrandomi conclusa la conversazione e avendo scambiato idee sul suo contenuto, Casagrande mi invia una sorta di autobiografia spiazzante, colma di entusiasmo, che si può solo provare a raccontare.
Il testo ha suscitato in me gioia ma anche crisi, un prurito, un fastidio come le mosche sulla pelle sudata d’estate.
Segno della sua capacità di spiegarsi impeccabilmente restando immutato, quasi fosse in possesso di un velo trasparente, impermeabile, che si adatta all’interlocutore senza sfilacciarsi, custode di quel corpo che contiene la mente rendendolo invalicabile, solido come la pietra, ma poroso come tufo.

Giovanna Pittalis

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