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Si muore un po’ per poter vivere – Recensione

La mostra “Si muore un po’ per poter vivere” di Antonella Spanu a MancaSpazio ha riscontrato un enorme successo, soprattutto tra i bambini.

“Il lavoro nasce da una ricerca artistica – racconta l’artista -. Durante la pandemia era molto difficile trovare un senso alle cose. In quel momento sentivo che tutti si trovavano un po’ sopraffatti e con paure più grandi di quante ne avessimo mai avute. Tra gli esempi: la paura di morire e di restare soli. Di fronte a questa situazione mi sono specchiata e volevo fuggire dalla paralisi. Ho iniziato a pensare allora alle paure dei bambini, oggi ci sembrano piccole. Le ho raccontate e poi ho chiesto agli altri di raccontarle a loro volta ricevendo un enorme riscontro. Da lì la nascita di un’urgenza che mi ha spinto ad approfondire”.

Antonella Spanu in maniera inconscia e naturale tende mano alle paure. Esse non si possono misurare, ci appaiono grandi o piccole a seconda delle fragilità e dei punti di forza. Riparte da capo dopo un periodo di riflessione e sperimenta per raccontare. Una soluzione consequenziale quella di sorridere davanti alla paura, come se ci rendessimo conto in realtà di quanto siamo carne e impotenza.

“Si trattava di momento in cui sentivo il bisogno non di grandi progetti ma di piccole cose. Ho iniziato con gli acquerelli, lavori piccoli per me stessa – dice Spanu -. Non voglio solo rappresentare le paure ma trovare una via di fuga, una chiave artistica che trova uscita, sfogo, libertà attraverso l’ironia. Si tratta di modi diversi per trovare un’esorcizzazione della paura”.

Tutti i lavori esposti sono stati pubblicati sui social, facendo nascere anche hashtag interessanti. Un momento di condivisione e, al contempo, esposizione.

“Tenevo al catalogo. L’ultima pagina è stata dedicata personalmente a chi lo acquista che andrà poi a inserire le proprie paure – spiega Antonella Spanu -. Con Chiara avevo già contatti da tempo per progetti di beneficenza. Sulla mostra a MancaSpazio ce lo siamo quasi dette a vicenda. Il lavoro non è finito, è in corso, ce ne sono tante altre. È andata bene, sono molto contenta ed emozionata, più del solito, in genere non lo sono per i vernissage. Questo lavoro mi ha coinvolto tanto dal punto di vista emotivo, pertanto ne comprendo le ragioni. Lo scambio con le persone è stato fondamentale. Sapere di essere arrivata a loro in maniera così intensa ha toccato le corde più profonde dell’anima. L’acquerello è stato scelto perché in questo caso avevo necessità di immediatezza. Una mia nuova infanzia rispetto all’utilizzo di una tecnica, rimettendomi a dipingere attraverso semplicità e rapidità”,

conclude Antonella Spanu.

“È una mostra un po’ diversa dal solito, nonostante l’argomento impegnativo, talvolta più approfondito e personale, altre volte più universale – dice Chiara Manca, di MancaSpazio -. Antonella Spanu è stata in grado di proporlo in chiave infantile con acquerelli molto precisi, attenti. Forse davvero la soluzione per esorcizzarle è semplificarle. Vederle tutte insieme e leggerle una dietro l’altra fisicamente è come se fosse una sorta di percorso in cui il visitatore si immerge, ne esce dopo aver parlato, riso, visto faccia a faccia una paura nella maggior parte dei casi passata. Alcune invece sono rimaste tutt’oggi ma proposte in questa modalità appaiono più piccole. Sono molto contenta di averla portata a Nuoro. La mostra è già stata richiesta in altri spazi e con Antonella ragioneremo sul fatto di riproporlo o no, è bella anche l’unicità. I visitatori hanno apprezzato ed è stato rilevante anche per i bambini che sono stati i più partecipi, attenti, attivi. Era una cosa che ci aspettavamo più dagli adulti e invece loro sono stati in grado di parlare in maniera più libera e coinvolgente. È stato sorprendente”.

Una mostra certamente interessante che permette di rivivere in lettura diversa alcune sensazioni che spesso appaiono passate, superate, ma che continuano e sopravvivere e formano ognuno di noi con lo scorrere del tempo. Un’indagine e un confronto tra noi e gli altri.

Sopravvive e si radica ancor più l’universalità dei lavori di Antonella Spanu.

Il dialogo accresce l’uomo e lo fortifica tanto da portarlo a sorridere del passato. Quelle paure che ieri sembravano grandi oggi sembrano nulla; ed è probabilmente questo lo stimolo che si vuole inviare: qualsiasi cosa ci sembri impossibile da superare, invincibile, in realtà è solo momentanea.

Alcune paure durano poi tutta la vita, ma se impariamo a conviverci o a esorcizzarle magari con un po’ di acquerello (che ci accompagna sin da piccoli) e confronto ci sembrano meno grandi.

La mostra di Antonella Spanu ci insegna a stringere le mani al nostro “nemico” e portarlo con noi in una maniera per nulla scomoda.

Giovanna Pittalis

Antonella Spanu

Antonella Spanu nasce a Mogoro 18 aprile 1974, attualmente vive e opera a Sassari.

Frequenta l’istituto d’arte a Oristano e l’Accademia delle belle arti a Sassari. In seguito parte all’avventura in cerca di nuove esperienze a Torino per quattro anni circa. “È stata una parentesi, una pausa, dove ho lavorato come restauratrice – dice Spanu -. Da Torino sono andata via perché non mi permetteva di proseguire sui miei progetti. Mi sono trasferita a Barcellona per un anno dove ho iniziato un altro progetto lavorativo che proseguo ancora oggi. È parte della mia ricerca artistica, si tratta di una mia linea di abbigliamento. Cerco di seguire lo stesso criterio artistico che avevo inizialmente”. Un percorso visivo e parallelo.

“Dopo Barcellona sono tornata a Sassari. Qui continuo i miei progetti tra brand e ricerca artistica – racconta -. Il mio lavoro è abbastanza riconoscibile: fiber art e annessi, disegni, installazioni”. Tiene sempre l’impronta.

“Una costante che ho sempre conservato è la ricerca della rappresentazione a primo impatto leggera e spensierata. In realtà si tratta di temi spesso importanti che abbracciano condizioni universali”, spiega l’artista. Incentrata nella ricerca collettiva, negli stati d’animo umani e nascosti Antonella Spanu talvolta rappresenta sé stessa, sperando che chi osserva si rispecchi.

Abbraccia in questo modo l’universalità umana, lo studio e approfondisce le fragilità. “Ho sempre amato scoprire e sperimentare. Riflettendo questa mia filosofia nei materiali che utilizzo in base alle necessità del momento. Non ho mai avuto preferenza per una tecnica o un’altra, anche se in alcuni momenti è sembrato, anzi ho sempre cercato di fuggire da queste costanti un po’ imposte, concentrandomi soprattutto sul contenuto e non la forma. Posso variare dalla fiber art, alle chine, al pastello, matita, acrilico, olio e acquerello. In base a ciò che voglio raccontare cambio tecnica”. Particolarmente riconoscibile è la sua fiber art, un amore indissolubile. Un filo d’Arianna che la conduce sempre al punto di partenza. “Con la fiber art ho iniziato in accademia – dice -. Nel 1997 ho realizzato il mio primo lavoro con questa tecnica (punto croce sugli assorbenti) che non venne mai esposto sino alla Biennale di due anni fa”.

“Non so come sia iniziata la mia voglia di realizzare con questa tecnica, faceva parte del mio percorso di sperimentazione. Investigavo sul femminile sugli stereotipi di genere. Era una ricerca legata appunto agli stereotipi, le mestruazioni, le pubblicità degli assorbenti che occultavano alcune cose naturali come se fosse una vergogna”. Una ricerca sul femminile quindi, un lavoro ironico. “Da lì il ricamo. Le donne non potevano dipingere ma potevano ricamare e produrre in questa modalità. L’avvicinamento agli altri artisti che operavano con questa tecnica è arrivato dopo”. Le opere che l’artista porta a compimento sono spinte da un’urgenza, talvolta improvvisa e inaspettata.

“Capita quando sento di dover raccontare qualcosa. Di fondo c’è sempre una ricerca concettuale. Dei lavori meditati ne sento poco l’autenticità, perciò rimangono sospesi. È come se a parlassi di un qualcosa che non mi appartiene e restano lì. Quelli che concludo scaturiscono da un’urgenza come divertirmi, raccontare, collaborare, condividere (per esempio l’ultima di MancaSpazio). E ogni tanto, legandomi a questo discorso, faccio performance ma non mi reputo una performer. Ho solo avuto nel corso dei decenni questa urgenza a cui non ho potuto sottrarmi”.

Antonella Spanu è motivata dalla curiosità che le persone le suscitano, come una turista dal punto di vista sociologico. “Non ho mai avuto un maestro di riferimento, ho sempre considerato la vita in generale mia maestra. E le persone. Un docente, Ghislain Mayaud, in accademia mi ha dato il coraggio di sbagliare, di provare, agire, fare. È lui il mio punto di riferimento, la chiave. Diceva che in mancanza di stimoli bisognava uscire e incuriosirsi. Per me un’illuminazione, soprattutto dopo un percorso molto tecnico all’istituto d’arte”.

L’artista Antonella Spanu a volte si ritaglia delle pause dal suo lavoro “Momenti in cui non faccio nulla in cui credo veramente”, conclude.

Un’artista dai mille percorsi, strade, che scopre tutte le diramazioni del suo spirito. I fili rossi della sua arte la contraddistinguono quasi fossero il sangue che le scorre nelle vene. Un regalo dal cielo la sua voglia di ricercare e sperimentare, quasi avesse come obiettivo di vita analizzare ciò che gli umani nascondono, forse per vergogna sociale.

Antonella Spanu ha la capacità di rompere la vergogna con la sua tecnica, spezza i limiti, li divide e li unisce accomunando le realtà. Ci fa capire in maniera apparentemente elementare che siamo umani.

Giovanna Pittalis

(ph Gigi Murru)